Il presidente del Cur di Rovigo a Ficarolo per il 25 aprile ricorda le radici della lotta partigiana e la nascita della Costituzione antifascista

FICAROLO (Rovigo) – Per la Festa della liberazione a Ficarolo è intervenuto il presidente del Consorzio universitario di Rovigo Diego Crivellari a cui è stato chiesto di parlare in questa giornata per ricordarne le radici della lotta partigiana e della Costituzione antifascista. Ringranziando per l’invito l’Anpi, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Fabiano Pigaiani e tutti coloro che hanno partecipato, il Viva alla Resistenza è stato celebrato dall’intervento che segue.

E’ sempre un’emozione particolare poter parlare della Resistenza e del 25 aprile, poterlo fare a casa propria, poterlo fare nelle città e nei paesi del Polesine, che hanno conosciuto – come a Ficarolo – le pagine tragiche e poi le pagine entusiasmanti della lotta di liberazione, dall’Alto Polesine fino al Delta del Po. Una storia che è ancora materia viva e pulsante, una storia che parla di noi, che siamo noi.

La nostra democrazia, che ha significato, tra le altre cose, ormai più di settant’anni di libertà, benessere, pace per il nostro paese, ed è bene ricordarlo, non è stata un dono del cielo o un frutto del caso: essa è stata una meta faticosamente conquistata, dolorosamente conquistata, siamo obbligati a dire, grazie all’impegno di una generazione di uomini e donne, soprattutto giovani, giovanissimi, una generazione che ha scelto di passare all’azione e ha scelto la libertà, restituendo dignità all’idea di patria e all’idea di nazione, contro la dittatura e contro la sopraffazione eretta a sistema.

Se si è parlato, in passato, di “morte della patria” in relazione all’8 settembre 1943 e alla dissoluzione delle strutture istituzionali del regime, il 25 aprile 1945 è stato ed è il giorno della rinascita della patria, il giorno della rinascita della nazione, punto di approdo di una lotta per la libertà che è stata definita anche come Secondo Risorgimento e, allo stesso tempo, punto di inizio di una pagina radicalmente nuova della storia italiana. Una cesura storica. L’Italia democratica e repubblicana.

Non solo e non principalmente la “morte della patria”, perché nei giorni oscuri che precedono e preparano l’inizio della Resistenza nasce e si sviluppa il germe – per migliaia di giovani che non avevano neppure conosciuto l’Italia prefascista, le libertà civili, i partiti, il dibattito pubblico e le elezioni democratiche – di una nuova coscienza antifascista, avviene cioè la maturazione di un nuovo atteggiamento verso la vita e verso la storia, di un sentimento di ribellione spontanea contro l’inganno della dittatura e l’autoritarismo, che quasi sempre anticipa la scelta politica meditata dell’individuo, e di conseguenza l’adesione nei confronti di più precise opzioni politiche, partitiche e ideologiche.

Di fatto, è la coscienza morale che si presenta come radice originaria dell’antifascismo dei giovani e, per molti, della loro successiva partecipazione alle pagine più dure e intense della lotta resistenziale.

Un grande storico come Claudio Pavone, ormai più di trent’anni fa, ha scritto un libro fondamentale per la piena comprensione di un fenomeno complesso come quello della Resistenza: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. L’opera di Pavone – lui stesso partigiano, voglio ricordare – ci ha spiegato come in Italia, tra il 1943 e il 1945, si siano combattuti tre distinti conflitti, tre guerre differenti e, insieme, complementari, parte di un più ampio quadro europeo e mondiale.

Le tre guerre furono la guerra di liberazione nazionale, la guerra civile e la guerra di classe.

La guerra di liberazione nazionale o guerra patriottica fu quella combattuta dai partigiani contro lo straniero invasore. In particolare, il nemico di questa guerra non fu percepito come un semplice straniero, ma anche, con una precisa connotazione politico-ideologica, come il nemico nazista, richiamando già di per sé “il terreno della guerra civile, ma “di una grande guerra civile europea”.

La guerra civile fu combattuta dai partigiani contro i fascisti, cioè fu una guerra combattuta da italiani contro altri italiani, contro un nemico connotato dall’adesione all’ideologia fascista. Una definizione che per molti era difficile da accettare, perché sembrava adombrare qualche forma di riconoscimento fuori tempo massimo o assegnare una sorta di patente di legittimità ai repubblichini, ma oggi sappiamo bene che ciò che accadde, in Italia, è anche questo, la guerra di giovani italiani contro altri giovani italiani, e riconoscere oggi il dato storico significa non tanto cercare giustificazioni per chi scelse la parte dell’oppressore e proporre inaccettabili equiparazioni, quanto piuttosto inquadrare con rigore e obiettività il ruolo della Resistenza, la sua complessità, la sua stratificazione interna e analizzare la tragedia della Seconda guerra mondiale in tutta la sua portata.

Anche per capire l’oggi. E per capire l’evoluzione del nostro paese: che cosa siamo diventati e qual è realmente il peso della nostra storia, l’eredità che ci lascia e dobbiamo conoscere e custodire.

La guerra di classe è ugualmente considerata come un aspetto peculiare della nostra guerra civile, perché – come scrive Pavone – “non tutti gli antifascisti erano socialmente proletari, né tutti erano ideologicamente disposti a far coincidere fascismo ed oppressione di classe”. Per una parte della Resistenza, essenzialmente per quella marxista, la lotta al fascismo coincideva anche con la lotta dei proletari contro i padroni, contro il capitale, lo sfruttamento e l’oppressione.

La ribellione contro il fascismo e contro il nazismo si ricollegava naturalmente anche all’esperienza di colui che, proprio qui, da noi, in Polesine, aveva visto e aveva subito sulla propria pelle l’avanzare della terribile violenza squadrista e, per primo, o comunque tra i primi, in Italia e in Europa, aveva saputo cogliere la novità di questo fenomeno e lanciato l’allarme per la salvezza della democrazia, del Parlamento e dello stato liberale: stiamo parlando, ovviamente, di Giacomo Matteotti.

Siamo a poco più di un anno dal centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti: un anniversario importante per la nostra storia nazionale, che avrà certamente riflessi sul territorio e vede già all’opera un comitato nazionale e un comitato provinciale. Il Polesine dovrà essere pronto ad accogliere queste celebrazioni, pensandole come una occasione importante di riflessione sulla nostra storia, ma anche sul futuro della nostra democrazia e, in generale, sul futuro della democrazia, in un mondo travagliato da tensioni, disuguaglianze, problemi sociali e ambientali, crisi economiche, guerre tornate in Europa.

Matteotti è, insomma, un tema attuale, un passaggio necessario. Matteotti non è stato solo una vittima illustre del fascismo, ma è stato l’iniziatore, coerente e implacabile dell’antifascismo. Al suo esempio, alla sua coerenza, alle sue idee hanno guardato coloro che hanno mantenuto viva la fede nella libertà anche sotto il giogo della dittatura e coloro che, negli anni cruciali ’43-’45 hanno scelto la ribellione contro l’oppressore e abbracciato la causa antifascista.

Tornando all’esempio della ricerca di Pavone, dobbiamo ricordare che il linguaggio dell’antifascismo, specialmente oggi, non può che essere il linguaggio della trasparenza e della verità, contro ogni settarismo e contro ogni, più o meno velata, discriminazione. La nostra democrazia è antifascista (anche) perché rappresenta un completo rovesciamento del sistema di valori sui cui si imperniava la dittatura e sostituisce alla violenza e alla sopraffazione il metodo del confronto, il metodo della discussione, il metodo del pluralismo, l’importanza della parola detta in pubblico, apertamente, liberamente, e poi di quella scritta, ugualmente libera. Una conquista decisiva che ancora, purtroppo, non tocca e non riguarda molti paesi nel mondo e in tanta parte del mondo è rimessa in discussione.

Il 31 gennaio 1921 Giacomo Matteotti tiene un importante discorso alla Camera, un discorso rimasto giustamente famoso per la denuncia accorata delle sistematiche violenze del fascismo agrario. Può senz’altro essere significativo notare come l’intervento del deputato socialista polesano – nel rivolgersi all’ultimo governo di Giolitti, definito beffardamente come insuperabile maestro di schermaglie parlamentari – si soffermi a più riprese sulla sua strutturale deformazione della verità che accompagna una stagione di violenza. Queste le parole di Matteotti:

“Si può dire che in questo momento di subbuglio, di violenza, nulla subisca maggiore violenza quanto la verità, quanto l’esposizione veritiera dei fatti”.

L’analisi di Matteotti procede lucida, puntuale e, in un crescendo di particolari, rivela il fenomeno radicalmente nuovo di una organizzazione extra-legale tollerata dagli apparati statali e fondata sull’uso sistematico della violenza politica, che agisce per conto della parte più retriva della società, con l’obiettivo di smantellare una dopo l’altra le istituzioni della composita galassia socialista, dalle amministrazioni locali alle sedi di leghe e cooperative, dalle case del popolo ai giornali e alle tipografie dei cosiddetti “sovversivi”.

In tanti, allora, non capirono che l’assalto squadrista al movimento socialista sarebbe stato soltanto il primo tempo di una sfida che aveva come obiettivo l’abbattimento dello stato liberale e la fine delle libertà civili e politiche, la fine dello stato di diritto, per tutti. Non solo per i socialisti.

Oggi viviamo in una democrazia solida, matura, europea, che – pur tra ritardi e contraddizioni – è profondamente radicata nel popolo italiano. Una democrazia che, come ogni sistema di questo tipo, è sempre in divenire, è sempre in cammino e deve saper rinnovarsi, accorciare la distanza tra cittadini e istituzioni, combattere le nuove povertà – che non sono soltanto povertà economiche, ma anche formative, culturali, di opportunità di vita – e le tante forme contemporanee di esclusione, non da ultimo lavorare concretamente per l’affermazione della pace e per il rispetto dei diritti umani nel mondo.

Per fare tutte queste cose e per poter guardare avanti, avendo ben presente che la nostra Costituzione – come ricordava Calamandrei – non è soltanto un pezzo di carta, non è qualcosa di inerte, ma è un programma politico vivo, ancora e sempre, da attuare e rendere concreto, la nostra democrazia deve avere ben presente le proprie radici, deve mantenere salda la propria memoria e respingere le falsificazioni della storia, deve essere consapevole – soprattutto nelle fasi di cambiamento, nei momenti più complessi – che essa è sorta da quel “no” che, insieme e singolarmente, i partigiani e le partigiane seppero pronunciare ottant’anni fa. Opporsi, respingere il folle progetto del totalitarismo razzista e scegliere la parte “giusta”, l’unica possibile parte giusta in quel frangente, la parte della lotta per la libertà e per la democrazia.

Queste sono le parole che uno scrittore e un partigiano e un antifascista come Italo Calvino mette in bocca a Kim, personaggio tra i più memorabili del suo romanzo giovanile sulla Resistenza, Il sentiero dei nidi di ragno: “Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione”.

Ecco, in queste parole di Calvino, scrittore e partigiano, viene descritta e spiegata efficacemente la prima radice dell’antifascismo e della lotta resistenziale: l’emergere di un sentimento elementare ma profondo di giustizia, l’emergere trasversale di una volontà di riscatto che ha unito migliaia di uomini e donne intorno ad un progetto comune e che non smette, ancora oggi, di parlarci e di indicare la strada per un futuro migliore. La strada per costruire un’Italia migliore, un paese libero che sia all’altezza della sua millenaria civiltà e del suo ruolo in Europa e nel mondo.

Diego Crivellari

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